“Franco Battiato e l’arte di svanire”

— Tutta l’Italia piange, con sincero dolore, colui che, a definirlo semplicisticamente “cantautore”, non gli si rende abbastanza giustizia.
Battiato fu sperimentatore brillante, nei generosi anni settanta, autore di orchestrazioni illuminate per i “Polli D’Allevamento” di Giorgio Gaber: un lavoro che contiene i prodromi del Battiato “commerciale” che prese il via da “La Voce Del Padrone” in poi.
In fondo, però, Battiato non fu mai veramente commerciale.
L’impressione è che non ci sia stato microsolco da lui realizzato che non ambisse al cielo, a dimensioni d’incomparabile altezza e bellezza, per un pubblico dal diverso grado d’attenzione, rispetto a quello odierno.

Ne “La Cura”, il brano più amato tra i suoi capolavori, c’è un’inedita semplicità armonica, atta a veicolare le straordinarie parole di Manlio Sgalambro senza troppi ostacoli stilistici ed è uno dei segreti che hanno reso quella canzone “LA canzone”: senza tempo, senza barriere, pronta ad abbracciare chiunque.

La sensazione che solo Battiato è riuscito a stimolare, rispetto ai suoi colleghi, riguarda la probabilità di averci fatto conoscere solo la punta del suo iceberg: un uomo troppo dedito alla disciplina, allo studio, all’umana evoluzione personale non può essere solo ciò che ci ha pubblicamente donato.
Ed è in quel “di più” che si cela il Maestro, l’esempio da seguire, l’elevazione ambita.

Il suo commiato è stato misurato e lento, ci ha fatto abituare alla sua assenza, preparandoci dopo essersi preparato.

Rimangono l’essenza e l’esempio, per le generazioni future.